Accertamenti bancari, prelevamenti e versamenti sono considerati ricavi fino a prova contraria


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Accertamenti bancari, prelevamenti e versamenti sono considerati ricavi fino a prova contraria
Autore: Maurizio Giambrone - aggiornato il 19/10/2005
N° doc. 865
19 10 2005 - Edizione delle 15:00  
 
Corte di cassazione, sentenza n. 18016 del 9 settembre 2005

Accertamenti bancari, prelevamenti e versamenti
sono considerati ricavi fino a prova contraria

Ricade sul contribuente l'onere di documentare l'esistenza di maggiori costi deducibili dal reddito poiché non si può presumere che a ricavi occulti debbano corrispondere necessariamente costi occulti
 
In tema di accertamenti bancari, il legislatore ha previsto che tutti i movimenti risultanti dai conti, sia le operazioni di versamento che quelle di prelevamento, debbano essere imputati a ricavi "se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine" (articolo 32 del Dpr 29/9/1973, n. 600).
La Corte di cassazione, con la sentenza n. 18016 del 9/9/2005, ha ribadito che spetta al contribuente provare la sussistenza di costi non contabilizzati riconducibili alle operazioni di prelevamento risultanti dai conti bancari, in quanto non è lecito presumere che se un soggetto ha occultato componenti positivi di redditi debba anche aver dichiarato parzialmente i costi sostenuti nell'esercizio. Anzi, afferma la suprema Corte, "la norma muove dal presupposto che il contribuente tenda ad occultare i ricavi, ma non i costi".

La Commissione tributaria provinciale adita, invece, pur riconoscendo la legittimità dell'avviso di accertamento emesso a seguito delle indagini bancarie condotte dalla Guardia di Finanza, nonché la fondatezza dei recuperi fiscali, aveva ritenuto di poter applicare "in via di equità" una percentuale di costi non dichiarati correlata ai maggiori ricavi.
La Commissione tributaria regionale della Lombardia aveva successivamente accolto l'appello incidentale dell'ufficio, sostenendo che il dettato normativo impone al contribuente di fornire la prova che i movimenti bancari siano stati registrati in contabilità e dichiarati, ovvero che siano del tutto estranei all'attività dell'impresa; pertanto, considerato che la prova non era stata addotta, l'ufficio finanziario ha correttamente sommato prelievi e versamenti ai fini della determinazione dei maggiori ricavi, non essendo possibile "operare una presunzione di esistenza di costi occulti per ciò solo che emergano ricavi occulti".

Dello stesso avviso sono stati i giudici di Cassazione che, rigettando la tesi del contribuente secondo cui sarebbe "nozione acquisita che a maggiori ricavi corrispondano maggiori costi", hanno evidenziato che nessuna prova è stata fornita in merito all'esistenza di costi correlati ai prelevamenti individuati dai verificatori, né sono stati indicati i beneficiari degli stessi, come espressamente previsto dalla norma. Per quest'ultima ragione, gli intestatari dei conti esaminati non potevano nemmeno dichiararsi "soggetti interponenti" ai fini dell'imputazione del reddito all'effettivo percettore, facendo valere il disposto dell'articolo 37 del Dpr 600/1973, perché in tal caso spetta al contribuente provare la diversa titolarità delle somme imputategli.

Recentemente, la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi su una questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione all'articolo 32, primo comma, n. 2), del citato Dpr 600/73, proprio nella parte in cui sancisce che i prelevamenti annotati nei conti bancari "sono altresì posti come ricavi (...) se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario ", ha affermato che la norma impugnata stabilisce una mera inversione dell'onere probatorio e non priva affatto il contribuente di adeguata tutela, dal momento che gli è consentito liberarsi dagli effetti della presunzione iuris tantum indicando il beneficiario del prelievo (Corte costituzionale, sentenza n. 225 dell'8/6/2005). La norma si sottrae pertanto alla censura di violazione dell'articolo 53 della Costituzione (principio della capacità contributiva), in quanto non è vero che stabilisce "un'equazione" secondo cui i ricavi accertati tramite indagini bancarie costituiscono interamente reddito.

A una presunzione di legge - afferma la Cassazione con la sentenza in commento - non può opporsi una mera dichiarazione o un'altra presunzione semplice. In merito ai costi, è peraltro regola generale che l'onere di provarne l'esistenza e l'inerenza ricada sul contribuente che ne invoca la deducibilità. L'articolo 109, comma 4, del Tuir, sancisce che costi e oneri afferenti ai ricavi sono deducibili "se e nella misura in cui risultano da elementi certi e precisi".
In assenza di validi elementi giustificativi e di idonea documentazione contabile o extracontabile, la rivendicazione di costi occulti collegati a ricavi non dichiarati appare una mera congettura, o addirittura ipotesi contrastante in linea di principio con la logica sottesa al meccanismo stesso dell'evasione, dal momento che il fine di chi dissimula al Fisco la giusta rappresentazione della realtà economica di un'azienda è quello di realizzare un risparmio d'imposta e, pertanto, è più verosimilmente interessato a occultare i componenti positivi di reddito piuttosto che i costi sostenuti nel periodo d'imposta.
 
Maurizio Giambrone
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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