Atti elusivi senza conseguenze. Una sentenza, tanti dubbi.


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Atti elusivi senza conseguenze. Una sentenza, tanti dubbi.
Autore: Baldassare Gullo - aggiornato il 31/10/2007
N° doc. 4545
31 10 2007 - Edizione delle 16:30  
 
Commissione tributaria provinciale di Milano

Atti elusivi senza conseguenze. Una sentenza, tanti dubbi

Per i giudici la formale liceità delle operazioni porta a escludere l'applicabilità di sanzioni. Osservazioni e critiche alla decisione
 
La Ctp di Milano, con una pronuncia depositata il 13 dicembre scorso, dopo aver riconosciuto l'elusività di un contratto di vendita a termine d'azioni, dal quale derivavano sull'azienda accertata delle minusvalenze, per l'appunto ritenute "non opponibili all'Amministrazione finanziaria", ha accolto la richiesta di non applicazione delle sanzioni irrogate contestualmente nell'atto accertativo. La sentenza, verosimilmente, apre un filone giurisprudenziale privo di precedenti di rilievo e merita, pertanto, molta attenzione.

Secondo i giudici, il disconoscimento degli atti elusivi non da luogo ad alcuna violazione di norme imperative, per cui è corretto il recupero delle imposte e degli interessi, costituenti l'indebito vantaggio conseguito, mentre non sono dovute sanzioni, essendo lecite le operazioni compiute.
L'articolo 37-bis del Dpr 600/1973 novellato, inoltre, non prevedrebbe sanzioni, salvo contenere un riferimento all'articolo 68 del Dlgs 546/1992, che la Commissione definisce un "automatismo".

Così, la disposizione antielusiva più rilevante del nostro ordinamento tributario sarebbe una norma imperfetta, priva di specifica sanzione ed, evidentemente, tutte le fattispecie derivanti sarebbero esperibili senza rischi, se non quelli di dovere, eventualmente, accertata l'elusione, corrispondere gli interessi legali nel frattempo maturati.
Accettando quest'interpretazione, anche il sistema tributario, fondato su più istituti deflativi del contenzioso, sarebbe, in presenza di un accertamento "antielusivo", privo del suo sistematico incoraggiamento alla definizione amministrativa dei procedimenti di controllo dell'imponibile.
Accertamento con adesione, conciliazione giudiziale e acquiescenza (oltre alla definizione agevolata delle sole sanzioni che, tuttavia, è irrilevante in tale contesto) hanno, infatti, nel beneficio del pagamento ridotto delle sanzioni, il loro primo e più attraente strumento di dissuasione all'instaurazione di liti temerarie.

D'altra parte, la decisione dei giudici milanesi sembra venire incontro all'inevitabile incertezza che le disposizioni antielusive determinano, per la difficoltà ricorrente di verificare l'assenza di valide ragioni economiche nel comportamento censurato e, quindi, l'esistenza di un effettivo aggiramento della norma impositiva.
La decisione di disapplicare le sanzioni appare conseguenza di questa circostanza.

I dubbi, oltre che dall'esame delle ragioni sistematico-logiche, sono soprattutto insiti nel contenuto letterale delle disposizioni in esame.
Secondo la sentenza, infatti, il contribuente ha posto in essere un comportamento lecito e non ha violato norme e divieti tributari. A ben vedere, applicando l'articolo 37-bis, quanto asserito nella sentenza non è giuridicamente sostenibile: il contribuente non ha violato le norme o i divieti tributari, solo ove questi possa opporre al fisco gli atti, i negozi o i fatti che hanno consentito di aggirare le norme imperative.

Giacché, per espressa previsione della norma, tali atti "sono inopponibili all'Amministrazione finanziaria", il precetto appare violato o il divieto non rispettato.
Potrebbe spiegarsi in tal modo la differenza tra l'espressione "sono inopponibili all'Amministrazione Finanziaria" e quella contenuta nella norma antesignana rispetto all'articolo 37-bis, ossia l'articolo 10 della legge 408/1990, che invece recita: "E' consentito all'amministrazione finanziaria disconoscere i vantaggi tributari".

Se a una prima lettura le due formule potrebbero apparire equivalenti, un attento esame ne rivela l'indiscutibile difformità.
L'articolo 10, della legge 408/1990 ha come suo destinatario l'Amministrazione finanziaria, la quale può disconoscere gli effetti degli atti elusivi: una tale prospettazione potrebbe corroborare la pronuncia della Commissione tributaria provinciale di Milano, giacché la norma non impone al contribuente alcun comportamento, se non una situazione soggettiva passiva, consistente nel disconoscimento dei vantaggi tributari a seguito dell'operato dell'Amministrazione finanziaria.
In tal modo, sarebbe certamente plausibile sostenere la non applicabilità di alcuna sanzione amministrativa, per l'assenza del requisito necessario allo scopo, ossia la colpevolezza del responsabile dell'azione elusiva, necessaria ai sensi dell'articolo 5 del Dlgs 472/1997.
Per tale ragione il legislatore potrebbe aver modificato il tenore letterale dell'articolo 37-bis del Dpr 600/1973, ove il precetto non è più rivolto agli uffici, ma al contribuente, che nel dichiarare il suo reddito all'Amministrazione finanziaria è tenuto a non considerare i fatti, gli atti e i negozi che gli consentono di aggirare i divieti ed i precetti tributari.

La norma, pertanto, impone direttamente al contribuente di disconoscere i vantaggi fiscali delle operazioni elusive.
A parere di chi scrive, inoltre, le fattispecie novellate dall'articolo 37-bis, non solo sono espressione di una colpevole infedele dichiarazione, ma addirittura possono sconfinare nel comportamento doloso.
Il citato articolo 5 del Dlgs 472/1997, all'ultimo comma, descrive il dolo fiscale, sancendo che la violazione "è dolosa quando è attuata con l'intento di pregiudicare la determinazione dell'imponibile o dell'imposta ovvero è diretta ad ostacolare l'attività amministrativa d'accertamento". Entrambe le condizioni sembrano sussistere nelle fattispecie elusive.

Tale valutazione sembra avvalorata da una sentenza della Corte di cassazione (la n. 2300/2005) di cui si riporta ampio stralcio: "non solo l'art. 6 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 - sulle nuove disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie - ma anche l'art. 10 della legge 27 luglio 2000, n. 212 - che ha introdotto lo statuto dei diritti dei contribuenti - e più ampiamente, tutte le varie disposizioni di legge che negli anni recenti hanno attribuito al giudice per vari motivi (o perché connesse a provvedimenti di condono fiscale o nell'ambito di una modificazione generale del sistema) la possibilità di non applicare le sanzioni richiedono sempre che le violazioni fossero colpose oppure - nell'ambito, del resto, dello stesso criterio generale - determinate da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione delle disposizioni cui si riferiscono. Le condizioni richieste da queste norme (e dalle altre di contenuto sostanziale analogo) non sussistono nel caso di specie, in cui non risulta - né è stato allegato - che la violazione fosse stata colposa, o che fosse dovuta ad incertezza sull'applicazione delle norme. Anzi, la stessa difesa si basa, in via esclusiva, sull'argomento ben diverso che quel certo comportamento - in concreto la detrazione dall'imposta dovuta di quella certa posta contabile contestata dall'ufficio - fosse pienamente lecito, ed il comportamento stesso, di cui è stata ritenuta la illiceità, appare palesemente volontario e diretto all'elusione dell'onere fiscale, e come tale non può ritenersi colposo. Queste medesime considerazioni escludono che sussistano i presupposti di fatto perché questa Corte proceda essa stessa - come astrattamente possibile - alla disapplicazione delle sanzioni".

L'altra ragione per cui la Ctp ha ritenuto non applicabile la sanzione è una loro mancata previsione nello stesso articolo 37-bis.
Questa sembra la motivazione meno rilevante, quella più difficilmente condivisibile.
Non si capisce perché la norma debba prevedere delle sanzioni, quando le stesse sono già previste in appositi decreti legislativi che definiscono compiutamente il sistema sanzionatorio amministrativo, sia enunciando i principi generali che le specifiche sanzioni delle diverse violazioni.

L'articolo 37-bis, peraltro, contiene un riferimento alle sanzioni, disponendo, in maniera eccezionale, la riscossione delle stesse solo ad accertamento definito.
Nella normale procedura, infatti, la riscossione provvisoria della pretesa tributaria comprende, a partire dalla sentenza della Ctp, anche la riscossione delle sanzioni, in misura dei 2/3 del deciso.
La norma "incriminata", al comma 6, invece, esclude la riscossione provvisoria delle sanzioni, sia dopo la sentenza di primo grado, che dopo quella di secondo grado, quando è prevista l'integrale riscossione del deciso, compreso di sanzioni.
Il comma 6 dell'articolo 37-bis fornisce verosimilmente una duplice risposta agli interrogativi sollevati.

Il legislatore ha probabilmente tenuto conto dell'incertezza, di cui si è detto, sulle valide ragioni economiche: per tale motivo, ha previsto la riscossione delle sanzioni solo dopo la definitività dell'accertamento, a seguito di un dispositivo passato in giudicato, piuttosto che la prospettata non applicabilità.
Questa potrebbe essere la risposta più incisiva ai dubbi sollevati dalla sentenza della Commissione tributaria provinciale, in attesa delle prossime pronunce, soprattutto in sede di giudizio di legittimità.

 
Baldassare Gullo
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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