Banche: sui bond in default nessun aiuto dall'Erario.


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Banche: sui bond in default nessun aiuto dall'Erario.
Autore: Giovambattista Palumbo - aggiornato il 21/06/2007
N° doc. 3534
21 06 2007 - Edizione delle 17:00  
 
Indeducibilità delle sanzioni pecuniarie

Banche: sui bond in default nessun aiuto dall’Erario

Irrilevanti fiscalmente i costi delle transazioni con i clienti per difetto di inerenza
 
A seguito dei tanti scandali finanziari che negli ultimi anni hanno caratterizzato la nostra economia sempre più spesso, visti i risultati delle cause nelle diverse sedi giudiziarie (finora conclusesi praticamente tutte a favore dei risparmiatori), le banche sono ormai sempre più propense a cercare di chiudere le vertenze processuali tramite transazioni.
Le vicende sono note: alcuni titoli obbligazionari e strumenti finanziari sono stati venduti da vari istituti di credito italiani a loro clienti.
Successivamente, visto il mancato rimborso dei titoli, sono iniziati procedimenti giudiziari per il recupero del denaro, con chiamata in giudizio delle banche che, a titolo di intermediari, avevano venduto le obbligazioni “incriminate”.
La giurisprudenza di merito ha finora sostanzialmente riconosciuto le ragioni dei risparmiatori, annullando o dichiarando l’inefficacia dei contratti di vendita.

Intermediari e banche, infatti, ai sensi dell’articolo 28, comma 1, lettera b), del regolamento Consob n. 11522/1998, hanno l’obbligo di consegnare all’investitore il documento informativo sui rischi generali.
A carico degli operatori bancari sussiste del resto un vero e proprio obbligo di valutare la situazione patrimoniale, la propensione al rischio e gli obiettivi di investimento del cliente, consigliandolo di conseguenza. L’obbligo si sostanzia nell’astensione dall’esecuzione di operazioni di acquisto titoli, qualora le stesse non risultino adeguate per tipologia, oggetto, frequenza o dimensioni, con o per conto degli investitori (vedi articolo 29 del regolamento Consob n. 11522/1998).
Obbligo che, peraltro, rappresenta la concreta applicazione dei principi generali di correttezza, diligenza e trasparenza sanciti dalla normativa codicistica e da quella di settore (vedi articoli 1175 e 1176, comma 2, del Codice civile, e 21 del Dlgs n. 58/1998).

Dunque, delle due l’una: o la banca, consapevole del rischio, non ha ottemperato al proprio obbligo di non cedere al cliente titoli a rischio non adeguati al suo profilo; oppure la banca, non essendo consapevole del rischio di tali titoli, ha violato i propri obblighi di qualificata diligenza.

La giurisprudenza ha del resto evidenziato che, nel caso di una banca, "il concetto di diligenza, si riferisce, naturalmente, non alla generica diligenza, del buon padre di famiglia, bensì alla diligenza del buon professionista, particolarmente qualificata" (tribunale di Firenze, 30 maggio 2004).
Al non rispetto di tali obblighi consegue l’annullamento delle operazioni eseguite dalla banca, in quanto effettuate in violazione di norme imperative di legge con conseguente illiceità della causa, ai sensi dell’articolo 1343 del Codice civile.
L’onere della prova in tali circostanze è chiaramente a carico degli istituti di credito, dato che, come disposto dell’articolo 23, comma 6, del Dlgs n. 58 del 1998, "nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori, spetta ai soggetti abilitati l'onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta. Nel caso delle richieste di risarcimento avanzate dai clienti costituisce uno specifico onere della banca, pertanto, provare di aver fornito al cliente tutte le informazioni necessarie per effettuare un acquisto consapevole".

Alla conclusione della nullità di tali contratti si giunge del resto anche sulla base della constatazione che la normativa violata è posta a tutela dell’ordine pubblico economico.

Inefficacia della clausola di stile di conoscenza dei documenti informativi
Come appurato dalle varie sentenze di merito intervenute in materia, molti dei soggetti che hanno acquistato le obbligazioni “a rischio” non erano oggettivamente in grado di valutare la pericolosità dell’operazione.
Per tale motivo, le banche avrebbero dovuto fornire precise, chiare e univoche indicazioni circa la pericolosità degli investimenti.
Anche l’eventuale consegna del documento informativo non potrebbe quindi ritenersi idonea a determinare una presunzione di conoscenza dei rischi dell’investimento in capo al risparmiatore, sia per il carattere generale delle informazioni, sia per il grado di comprensione da parte degli investitori non professionali.

L’indicazione secondo cui i contratti di acquisto vengono eseguiti "avendo i clienti ricevuto adeguate informazioni in merito ai rischi connessi allo strumento finanziario in oggetto" rappresenta, infatti, solo clausola di stile, non idonea a esonerare la banca dall’onere di fornire la prova positiva del tipo di informazione concretamente dato.
Tale clausola è peraltro inefficace alla luce del disposto di cui all’articolo 1469-bis del Codice civile.
A tali conclusioni è giunta anche la giurisprudenza di merito quando ha affermato che deve ritenersi non adeguata l’operazione di acquisto di obbligazioni “a rischio” in considerazione della natura altamente rischiosa dei titoli prescelti, delle condizioni di mercato di quei titoli (il cui rating era oggetto di progressivo declassamento da parte delle maggiori agenzie internazionali), della circostanza che i clienti erano investitori non professionali, dell’età degli stessi, nonché della propensione al rischio in precedenza manifestata (tribunale di Mantova, 12 novembre 2004; cfr tribunale di Taranto, sezione III, 27 ottobre 2004, n. 2273/04).

Tali pronunce hanno dichiarato la nullità delle operazioni di acquisto di obbligazioni, condannando le banche convenute, ritenute non in buona fede, alla restituzione di ingenti somme di denaro, maggiorate di interessi dal giorno del pagamento, ex articolo 2033 del Codice civile (vedi anche tribunale di Bari, sentenza n. 2736/2006).
Tali condanne hanno, inoltre, tenuto conto del fatto che, nei casi di specie, a carico degli intermediari vi era anche un’ipotesi di conflitto di interessi, ai sensi dell’articolo 21, comma 1, lettera c), del Dlgs 24 febbraio 1998, n. 58, e dell’articolo 27 della delibera Consob 1° luglio 1998, n. 11522.
Tali intermediari infatti, assumendo in proprio il rischio di collocamento, attraverso la collocazione dei prodotti finanziari incriminati hanno sostanzialmente realizzato il proprio interesse a trasferire sul cliente il rischio di risultato che altrimenti avrebbero dovuto sostenere.

Le conseguenze fiscali: indeducibilità delle somme da transazione per difetto di inerenza
Fatta questa necessaria premessa sulla connotazione civilistica della vicenda e sull’andamento giurisprudenziale delle relative cause, vediamo quali sono le conseguenze fiscali.
Essendo i contratti sottoscritti nulli, i relativi costi da transazione sono indeducibili per difetto di inerenza.
Ad avviso della Cassazione (cfr sentenza 29 maggio 2000, n. 7071), infatti, per tutti i costi rappresentati dal pagamento di sanzioni pecuniarie (quali sono in sostanza anche le somme pagate in transazione), irrogate per punire comportamenti illeciti del contribuente, non può essere configurato un rapporto funzionale alla produzione del reddito.
La somma pagata, in sostanza, è l’effetto del comportamento illecito dell’imprenditore e non la causa.
Non è possibile, quindi, considerare tali importi come costi sostenuti a fronte di ricavi, dato che è evidente la mancanza di un rapporto di causa ed effetto tra l’esborso stesso e i componenti positivi di reddito, o i maggiori ricavi, realizzati.

E’ del resto sicuramente da escludere che l’onere da transazione rappresenti l’onere che le imprese sostengono per ottenere ricavi più consistenti e quindi deducibile a titolo di sopravvenienza passiva.
Nello stesso senso si è espressa la Commissione tributaria centrale, ritenendo che le somme pagate in conseguenza di illeciti, qualunque sia la causa che abbia potuto indurre il contribuente a disattendere norme giuridiche il cui valore sovrasta, per motivi di sicurezza e ordine sociale i fini di maggiore redditività che si propone il contribuente, sono indeducibili in sede di determinazione del reddito d’impresa.

Trattandosi di imposizione relativa alla trasgressione di norme penali, civili, amministrative, il giudice tributario esclude, infatti, la configurazione di un comportamento incrementativo della situazione patrimoniale, trattandosi, per contro, di un rimedio a una condizione giuridicamente patologica (cfr Ctc, decisione 13 giugno 1983, n. 1763; Ctc, decisione 21 marzo 1994, n. 784).

Proprio il principio di legalità deve essere richiamato per evidenziare che, essendo gli effetti della violazione di una norma giuridica prevedibili a priori, c’è indeducibilità di un costo consapevolmente sostenuto in violazione di un precetto giuridico.
Oltretutto, se tali importi potessero essere dedotti, essi sarebbero a carico della collettività (compresi, per assurdo, gli stessi risparmiatori) in termini di minor gettito fiscale.

 
Giovambattista Palumbo
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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