Il ricorso incompleto limita la decisione del giudice.


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Il ricorso incompleto limita la decisione del giudice.
Autore: Massimo Cancedda - aggiornato il 20/06/2007
N° doc. 3527
20 06 2007 - Edizione delle 15:00  
 
Sentenza n. 11212 del 16 maggio 2007

Il ricorso incompleto limita la decisione del giudice

Lo specifico provvedimento richiesto dalla parte interessata deve essere sorretto dall’indicazione degli opportuni fatti giuridici che ne costituiscono il fondamento
 
La richiesta avanzata dall’interessato con il ricorso introduttivo del giudizio deve essere valutata nel suo contenuto sostanziale. Pertanto, se il ricorrente ha chiesto l’annullamento “integrale” dell’atto ma, in concreto, ha contestato soltanto alcuni dei rilievi dell’ufficio, solo su questi ultimi è consentito il sindacato del giudice tributario. In questi termini è riassumibile il principio di diritto formulato dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 11212 del 31 gennaio 2007, depositata il successivo 16 maggio, che ha chiarito l’ambito applicativo dell’articolo 112 cpc rispetto al ricorso introduttivo del giudizio tributario.

La controversia
L’ufficio del Registro rettificava i valori dichiarati dagli eredi in una successione riguardante otto immobili e un’azienda artigiana appartenuti al de cuius.
Gli eredi impugnavano l’avviso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Ancona, che accoglieva il gravame statuendo l’illegittimità dell’atto tributario.
Nel giudizio d’appello, l’Amministrazione finanziaria deduceva che, con il ricorso di primo grado, l’atto impositivo era stato impugnato soltanto per la rettifica del valore dichiarato per l’azienda e per i due immobili facenti parte della stessa - mentre per gli altri immobili indicati nella dichiarazione di successione nessuna eccezione era stata sollevata in merito alla rettifica del valore e alla conseguente liquidazione dell’imposta - per cui il giudice di prime cure non avrebbe potuto accogliere la richiesta principale tendente all’annullamento integrale dell’atto impugnato.
Le censure non venivano peraltro accolte dalla Commissione tributaria regionale delle Marche che, con sentenza n. 56/10/00 depositata il 26 giugno 2000, dichiarava la correttezza dell’integrale annullamento dell’avviso disposto dai giudici di prime cure.

Avverso la pronuncia di secondo grado la parte pubblica proponeva ricorso di legittimità.
In tale sede, l’Amministrazione - nel precisare che per gli immobili indicati in dichiarazione, estranei all’azienda artigiana che faceva parte dell’asse ereditario, gli eredi avevano chiesto l’attribuzione della rendita catastale e la conseguente tassazione in base al cosiddetto “moltiplicatore” - eccepiva violazione e falsa applicazione dell’articolo 112 del Codice di procedura civile.
L’Amministrazione, in sostanza, ribadiva dinanzi alla Suprema corte quanto già rilevato, ma non accolto, in appello, ovvero la circostanza che, non avendo i ricorrenti mosso alcuna censura all’operato dell’ufficio in ordine a tali fabbricati, il giudice tributario non poteva annullare l’avviso anche per la parte concernente quegli immobili.
Secondo il ricorrente, infatti, la conferma della sentenza di primo grado operata dalla Ctr non avrebbe tenuto conto del vizio di ultrapetizione, per aver il giudice deciso oltre i limiti di quanto richiesto dalla parte interessata; ciò nonostante lo specifico motivo di appello proposto dall’ufficio.

Dal canto loro, i contribuenti contestavano la sussistenza del vizio denunziato, adducendo che essi, in via principale, avevano richiesto l’annullamento integrale dell’avviso di liquidazione - in quanto, come aggiunto nella memoria, viziato nella sua globalità - e solo in via subordinata la riduzione dell’accertamento della base imponibile.

La sentenza
I giudici di piazza Cavour, per quanto di interesse in questa sede, hanno accolto le doglianze dell’amministrazione ricorrente.
Secondo la Cassazione, invero, la richiesta dei contribuenti di annullamento “integrale” dell’atto impugnato "non autorizza il giudice tributario a provvedere in consonanza, perché quel giudice ha il dovere di verificare ex officio se la pronuncia reclamata è sorretta dalle condizioni pretese dall’art. 112 del codice di procedura civile".
In questo senso, ha precisato la Corte, occorre richiamare l’insegnamento giurisprudenziale secondo cui il petitum (vale a dire, lo specifico provvedimento che la parte interessata richiede al giudice) deve essere supportato da aderente causa pretendi (vale a dire, deve essere sorretto dall’indicazione degli opportuni fatti giuridici che ne costituiscono il fondamento).
Ciò in aderenza al canone ermeneutico per il quale "ogni domanda giudiziale può ritenersi introdotta in giudizio solo quando si trovi in rapporto di necessaria connessione con il petitum e la causa pretendi".

Nel caso di specie, dalla lettura degli atti - consentita alla Corte dalla natura processuale del vizio denunziato - era emerso che effettivamente la doglianza dei contribuenti non aveva investito affatto la valutazione di alcuni degli immobili indicati in un quadro della dichiarazione e, pertanto, non poteva costituire oggetto di esame da parte del giudice, pena la violazione del disposto di cui all’articolo 112 cpc.
In base ai predetti rilievi, quindi, la Suprema corte, rilevata la sussistenza del vizio denunziato, ha disposto la cassazione della sentenza impugnata "non avendo la Commissione tributaria regionale verificato se i contribuenti avessero proposto apposita motivata domanda tesa ad ottenere l’annullamento dell’avviso di liquidazione anche in ordine agli immobili indicati ai nn. 3), 4) e 5) del quadro B1".

Considerazioni
La pronuncia in esame ribadisce l’importanza del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, stabilita dall’articolo 112 del codice di rito civile e applicabile anche al processo tributario.
In virtù di tale regola, il giudice deve pronunciare su tutta la domanda ma "non oltre i limiti di essa".
Il rispetto di detto principio comporta, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, l’ulteriore canone in virtù del quale nell’interpretazione delle domande delle parti - attività che dà luogo a un giudizio di fatto rimesso al giudice del merito e insindacabile in sede di legittimità, salvo che si traduca in un errore in procedendo - il giudice "non deve arrestarsi alla formulazione letterale delle deduzioni e richieste contenute nell’atto processuale, ma deve avere riguardo al loro contenuto sostanziale" (v., al riguardo Cass., sentenza n. 4461 del 20 maggio 1997, che richiama anche i precedenti di Cass. 24 marzo 1987, n. 2857 e Cass. 29 settembre 1994, n. 7941).

In tale prospettiva, un’istanza non espressamente e formalmente proposta può ritenersi tacitamente introdotta e virtualmente contenuta nella domanda dedotta in giudizio a condizione che "si trovi in rapporto di necessaria connessione con il petitum e la causa petendi di questa e non ne estenda l’ambito soggettivo di riferimento" (Cass., sentenza n. 8200 del 19 agosto 1998).
Solo attraverso il rispetto di tale condizione il giudice non esorbita dai limiti della sua funzione e la pronuncia è conforme al contenuto dell’articolo 112 del Codice di procedura civile, determinandosi in caso contrario una violazione di legge che si riverbera, viziandola, sulla relativa sentenza.

 
Massimo Cancedda
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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