Impresa familiare. Fisco indifferente al recesso - Risoluzione n. 176/E del 28 aprile 2008.


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Impresa familiare. Fisco indifferente al recesso - Risoluzione n. 176/E del 28 aprile 2008.
Autore: Paola Cigliano - aggiornato il 28/04/2008
N° doc. 8919
28 04 2008 - Edizione delle 15:00  
 
Risoluzione n. 176/E del 28 aprile 2008

Impresa familiare. Fisco indifferente al recesso

Non va assoggetta a Irpef la somma liquidata al soggetto "uscente"
 
La somma liquidata al coniuge per il recesso dall'impresa familiare afferisce alla sfera personale dei soggetti del rapporto e non è riconducibile a nessuna delle categorie reddituali previste dal Tuir. L'importo non va, pertanto, assoggettato a Irpef in capo al soggetto percipiente. Lo stesso non è, inoltre, rilevante e non è deducibile come componente negativo del reddito d'impresa, per mancanza del requisito dell'inerenza che si configura per le spese riferite ad attività da cui derivano proventi che concorrono a formare il reddito.
È in sintesi il contenuto della
risoluzione n. 176/E del 28 aprile 2008.

La questione affrontata dall'agenzia delle Entrate trae origine dall'istanza di un imprenditore che, dovendo corrispondere al coniuge delle somme per il recesso dall'impresa familiare, riteneva di dover applicare le disposizioni previste in materia di redditi prodotti in forma associata, di cui agli articoli 20-bis e 17, comma 1, lettera l), del Tuir.
Per l'istante, cioè, le somme in questione sarebbero dovute essere tassate in capo al congiunto come redditi soggetti a tassazione separata, rappresentando, per il principio di simmetria, costi deducibili per l'impresa.

Va innanzitutto rilevato che per impresa familiare si intende quella in cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo.
La legge di riforma del diritto di famiglia ha disciplinato l'istituto, al fine di apprestare una tutela giuridica al congiunto che presta, normalmente per affetto e benevolenza - e quindi senza alcuna regolamentazione contrattuale - la propria opera nell'impresa.
In particolare, l'articolo 230-bis del codice civile ha previsto il diritto del familiare di partecipare agli utili dell'impresa e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. Il diritto di partecipazione è intrasferibile e può essere liquidato in denaro alla cessazione della prestazione di lavoro, per qualsiasi causa, e in caso di alienazione dell'azienda.

La Cassazione ha riconosciuto una natura residuale all'istituto, che si rende applicabile quando non sia configurabile un diverso rapporto (ad esempio, nell'ipotesi di un rapporto di lavoro subordinato o associativo - sentenza 24 marzo 2000 n. 3520) e purché il familiare non sia posto in una posizione deteriore rispetto a quella prevista dall'art. 230-bis.

In relazione a ciò, l'Agenzia ha evidenziato che per quanto riguarda il profilo fiscale il legislatore ha disciplinato la materia tenendo conto del fatto che la peculiarità dell'istituto può determinare operazioni elusive, volte ad aggirare il principio della capacità contributiva attraverso abbattimenti di imponibili e riduzioni di aliquote che trasformino il fisiologico godimento di profitti da parte dei familiari in costi per l'impresa.

Pertanto l'articolo 5 del Tuir prevede che i redditi delle imprese familiari, limitatamente al 49% dell'ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell'imprenditore, siano imputati a ciascun familiare che abbia prestato in modo prevalente e continuativo attività di lavoro nell'impresa, limitatamente alla sua quota di partecipazione agli utili. Inoltre, l'articolo 60 del Tuir stabilisce l'indeducibilità dei compensi del lavoro prestato o dell'opera svolta dall'imprenditore, dal coniuge, dai figli, affidati o affiliati minori di età o permanentemente inabili al lavoro e dagli ascendenti, nonché dai familiari partecipanti all'impresa familiare.

Sulla base di tali premesse l'Amministrazione, con riferimento al caso in esame, ha rilevato, innanzitutto, l'"impertinenza" delle disposizioni richiamate dall'istante (articoli 20-bis e 17 del Tuir), che si riferiscono a redditi prodotti in forma associata.
Per giurisprudenza consolidata, l'impresa familiare ha, infatti, natura individuale; imprenditore è pertanto unicamente il titolare dell'azienda al quale spettano i poteri di gestione e di organizzazione del lavoro (Cassazione, sentenze 8959/1992 e 1917/1999).

Inoltre, i diritti dei familiari nell'impresa assumono rilevanza obbligatoria esclusivamente nei rapporti interni con il congiunto imprenditore, in quanto traggono fondamento nella solidarietà che deve risiedere nei rapporti familiari e nell'esigenza di tutela e valorizzazione del lavoro prestato dai componenti della famiglia che hanno dato il loro contributo all'impresa. L'imprenditore deve pertanto devolvere parte del suo reddito ai componenti della famiglia che collaborano nell'impresa, e deve liquidare al familiare il diritto di partecipazione nell'ipotesi in cui cessi di lavorare nell'impresa. Le somme corrisposte dall'imprenditore ai familiari sono dirette, quindi, a soddisfare esigenze estranee alle finalità e alla logica d'impresa.

Ciò comporta, secondo una interpretazione logico sistematica, che la liquidazione corrisposta al coniuge per il recesso dall'impresa non vada assoggettata a Irpef, non essendo riconducibile alle categorie reddituali previste dal Tuir. La somma, inoltre, non rileva come componente negativo e non è deducibile dal reddito d'impresa, non ricorrendo il requisito dell'inerenza che si configura per le spese riferite ad attività da cui derivano proventi che concorrono a formare il reddito.

La soluzione adottata è coerente con quanto già precisato con la circolare n. 320 del 1997, concernente il caso di conferimento di una impresa familiare in società. In quella occasione l'Amministrazione finanziaria aveva ritenuto che il titolare dell'impresa familiare, nell'acquisire la partecipazione dalla società conferitaria, avesse dovuto liquidare i diritti di credito spettanti ai collaboratori familiari secondo le regole civilistiche, senza che da ciò derivassero conseguenze fiscali in ordine al valore delle partecipazioni.

 
Paola Cigliano
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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