L'intuitus personale non salva l'odontoiatra dall'Irap.


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L'intuitus personale non salva l'odontoiatra dall'Irap.
Autore: Angelina Iannaccone - aggiornato il 03/07/2007
N° doc. 3588
03 07 2007 - Edizione delle 16:30  
 
Sentenza n. 13811 del 13 giugno 2007

L’intuitus personae non salva l’odontoiatra dall’Irap

Esclusione dall’imposta se i profitti provengono solo dall’auto-organizzazione del professionista o, comunque, se l’organizzazione ha incidenza marginale e non richiede necessità di coordinamento
 
L’imposta regionale sulle attività produttive (Irap) coinvolge una capacità produttiva “impersonale ed aggiuntiva”, rispetto a quella propria del professionista, determinata dalla sua cultura e preparazione professionale, e presuppone una struttura organizzativa, che risulti in grado di realizzare un “incremento potenziale” della produttività, derivante dall’“auto organizzazione” del lavoro personale. Il riscontro dei dati, rilevanti ai fini della configurabilità dell’autonoma organizzazione, va rinvenuto dalla dichiarazione dei redditi del contribuente o dalla certificazione dell’anagrafe tributaria, con particolare riferimento alle appostazioni contenute nelle righe di dettaglio del quadro RE.
Tali importanti precisazioni sono state fornite dalla Corte di cassazione (sentenza n. 13811 depositata il 13 giugno 2007), che ha ulteriormente arricchito il quadro della giurisprudenza, elaborata dal giudice di legittimità, nel cosiddetto Irap day (8 febbraio 2007).

Gli elementi di verifica del surplus che genera tassazione
La controversia, portata all’attenzione della Suprema corte, trae origine dal ricorso, proposto da un medico odontoiatra, avverso il silenzio rifiuto, serbato dall’Amministrazione su di un’istanza di rimborso Irap, presentata per mancanza dei presupposti impositivi dell’imposta nell’esercizio dell’attività svolta.

Rimasto soccombente nel primo grado di giudizio, il contribuente vedeva accolte le sue ragioni in appello. Secondo i giudici di secondo grado, infatti, l’intuitus personae dei professionisti escludeva a priori, senza quindi, alcuna necessità di accertamento concreto, l’autonomia di qualsiasi forma di organizzazione lavorativa, come per le “professioni protette”, per le quali è previsto dalla legge uno specifico esame di abilitazione, così che l’iscrizione all’albo o all’ordine professionale costituirebbe l’elemento qualificante per escludere rilevanza a qualsiasi profilo organizzativo prescelto per l’attività.

Tale impostazione è stata totalmente disattesa dalla Corte di cassazione.
I giudici di legittimità, infatti, hanno affermato che è sempre possibile costituire autonome strutture di supporto al lavoro professionale, che sono in grado di realizzare un “incremento potenziale” alla produttività insita nell’“auto organizzazione” del lavoro personale.
Secondo la Cassazione, "....è il surplus di attività agevolata dalla struttura organizzativa, che coadiuva e integra il professionista nelle incombenze ordinarie, a essere interessato all’imposizione che colpisce l’incremento potenziale, o quid pluris, realizzabile rispetto alla produttività auto organizzata del solo lavoro personale".
Per la Suprema corte, quindi, è proprio l’autonoma organizzazione, comportante l’utilizzazione di sofisticati supporti tecnici e logistici o il lavoro altrui, che viene ad accrescere il profitto del lavoratore autonomo. Ne consegue che, per far sorgere e configurare il presupposto impositivo dell’Irap, è sufficiente l’esistenza di un apparato organizzativo che non sia sostanzialmente ininfluente, che sia cioè in grado, secondo il comune sentire, di fornire un apprezzabile apporto al professionista. Ovviamente, di tale “comune sentire”, il giudice di merito è indagatore e interprete.

Dopo tale puntualizzazione, la Cassazione viene a fornire importanti indicazioni per il giudice di merito, che dovrà individuare gli elementi rilevanti, ai fini della configurazione dell’autonoma organizzazione.
Secondo i giudici di legittimità, i dati di autonoma organizzazione vanno rinvenuti per lo più in negativo, in quanto l’imposta non è applicabile quando il risultato economico trovi ragione esclusivamente nell’“auto-organizzazione” del professionista o, comunque, quando l’organizzazione da lui predisposta abbia incidenza marginale e non richieda necessità di coordinamento (in genere pochi mobili d’ufficio, fotocopiatrice, fax, computer, cellulare, materiale di cancelleria, autovettura). Tali dati possono essere rinvenuti, suggerisce la Cassazione, nella dichiarazione dei redditi del contribuente (o nella certificazione dell’Anagrafe tributaria), con particolare riferimento alle appostazioni contenute nel quadro RE (riguardante la determinazione del reddito di lavoro autonomo, ai fini Irpef), che specifica la composizione dei costi, riportando, tra l’altro, le quote di ammortamento dei beni strumentali, i canoni di locazione finanziaria e non, le spese relative agli immobili, le spese per prestazioni da lavoro dipendente, per collaborazioni e i compensi comunque elargiti a terzi, gli interessi passivi.

Da tale “regola empirica” si ricava che, laddove non sia segnalata la presenza di dipendenti e/o collaboratori o l’impiego di beni strumentali, al di là di quelli indispensabili alla professione e di normale corredo al know how del lavoratore autonomo, i giudici di merito possono ricavare un quadro affidabile di esercizio della professione che, secondo una valutazione di natura non soltanto logica ma anche socio-economica, induca a riscontrare l’assenza di un’organizzazione produttiva tassabile ai fini Irap.

La pronuncia in oggetto ha l’indubbio merito di aver definito la nozione di “autonoma organizzazione”, configurandola come distinta fonte di ricchezza, rispetto all’esercizio professionale, di per sé considerato, e di aver fornito utili indicazioni sui criteri probatori che consentono di dimostrare la mancanza o la presenza di una struttura organizzativa, costituente un apporto aggiuntivo rispetto al lavoro del professionista.

 
Angelina Iannaccone
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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